mercoledì 31 agosto 2011

Pietre coreane/6

Sesta parte

Per leggere la terza parte: http://strane-storie.blogspot.com/2011/08/pietre-coreane3.html
Per leggere la quinta parte: http://strane-storie.blogspot.com/2011/08/pietre-coreane5.html

La mattina dopo presi l’autobus e mi recai in una città vicina. Dovevo ascoltare una persona che mi avrebbe fornito ulteriori dettagli sulla personalità del Corea.

Fra le tante cose che avevo letto dai vecchi giornali mi aveva colpito quel legame fra il sindaco e la Samco, la mia adorata Samco.
La sua carriera politica sarebbe dovuta al silenzio dell’ex semplice custode durante le indagini sui misteriosi esperimenti.
Mi sembrava l’ennesima bufala. Nessuno degli altri dipendenti dell’azienda ha mai ammesso qualcosa eppure solo lui, il Corea, è diventato più ricco e potente di prima. Però era anche vero che era difficile giustificare una così rapida ascesa nel mondo della politica. Perché mai il partito più votato d’Italia avrebbe portato un ex custode, un tizio qualunque in Parlamento? Per quei posti sgomitano in migliaia, eppure quel partito aveva deciso –così all’improvviso– di darlo al primo sconosciuto beccato per strada. Qualcosa decisamente non tornava.
Forse un giorno avrei dovuto indagare meglio sui segreti della mia casa.
Fuori dai finestrini brillava la vita quotidiana. Passammo davanti al centro commerciale, che in quell'ora del mattino, pullavava di pensionati in cerca di compagnia e casalinghe in cerca di occasioni.
Sul ponte che solca la ferrovia, ai confini fra campagna e città, erano già al lavoro le prostitute africane. Sedevano sciatte su squallide sedie di plastica e aspettavano i clienti masticando chewing gum.
Passato il ponte ecco il nuovo quartiere, case e case e case che stavano sorgendo di corsa l’una accanto all’altra anche se in città tutto questo bisogno di abitazioni non c’era. La faccia del Corea mi guardava da un vecchio manifesto scolorito. Mi domandai come sarebbe finita l’assurda sceneggiata che si era inventato con la polizia per “salvare” Jack Bicipite.
La città si perdeva e iniziava la campagna. I trattori aravano la terra fertile e gli indiani si muovevano in bici ai margini della carreggiata. Vanno da un campo all’altro, solo loro osavano ancora sudare per l’agricoltura.
Giurai a me stesso che avrei duramente punito il Corea. Avrebbe scontato tutto quel maledetto avido assetato di potere.

La signora –Maria si chiamava– con cui avevo appuntamento mi accolse sorridente nel suo piccolo appartamento. Indossava una vestaglia e mi offrì tè e biscotti fatti in casa.
Era minuta, il volto dolce, i capelli corti. All’apparenza era difficile collegarla alla storia che mi avevano accennato.
La signora Maria mi guardò rassegnata: “Sa ci credo poco che lei possa fare davvero qualcosa.”
 C’è la farò, tranquilla, c’è la farò.
Iniziò finalmente a raccontare.

“Dunque, io fino a due anni fa ero un’impiegata delle Poste. Lavoravo in quell’ufficio da vent’anni, era come una seconda casa per me. Ma immagino che a lei non interessino questi romanticismi”
La guardai, facendole cenno di procedere.
Maria respirò bene e poi fissandomi negli occhi proseguì: “Era d’estate. Credo fosse la fine di giugno. Certi dettagli non li ricordo bene, comunque, quella mattina si presentò in ufficio la moglie del Corea.
Come tutti prese il numeretto e iniziò a fare la fila. Poi accadde qualcosa. Forse il caldo (l’aria condizionata non funzionava), forse la noia (dicevo io di mettere le riviste nel salotto d’attesa come fanno dal dottore) insomma la signora ad un tratto si alzò, si avvicinò al bancone e iniziò a brontolare. Disse –ricordo bene le sue farneticazioni– che facendole fare la coda come le persone normali stavamo mancando di rispetto alle Istituzioni dello Stato. Lei come moglie del sindaco, aveva diritto ad essere servita subito e, anzi, era stata fin troppo paziente con noi.
Le risposi garbatamente di tornare al suo posto. Lei in quel momento non rappresentava proprio nessuna istituzione dello Stato e non aveva diritto a quella prepotenza nei confronti delle persone comuni. Gli altri clienti già avevano iniziato, giustamente, a protestare.
Ma quella non era abituata ad essere contraddetta. Mi si avvicinò all’orecchio e mi minacciò: ‘’Stai attenta’’
Sempre con gentilezza la rispedii al suo posto.
La donna si sedette sbuffando. Poi come una bambina viziata iniziò ad alzarsi e a sedersi svariate volte. Infine se ne andò. Immaginai che avesse deciso di passare quando c’era meno gente oppure avesse scelto di servirsi da un'altra parte.
Tornò poco dopo in compagnia del marito, il Corea in persona, e quattro-cinque leccaculi che lo seguivano in branco.
I leccaculi scansarono il cliente che stavano servendo, si piazzarono di fronte a me: “Signora, il sindaco e sua moglie avrebbero una certa urgenza da sbrigare. Sa non possono perdere troppo tempo qui, hanno un appuntamento per il bene della città.”
Sentivo il cuore battermi furioso, non ho mai avuto un animo docile e incline a sopportare le prepotenze, senza neanche pensarci troppo, d’impeto mi alzai in piedi e puntai il dito contro tutti loro: “Fate la fila come tutti!”
Mi accorsi di tremare. Mi sedetti e indifferente alle facce sbalordite di quelli, ripresi a servire il cliente di prima.
Con la coda dell’occhio cercai di captare la reazione della gente. Li vidi lamentarsi sottovoce. I miei colleghi facevano finta di niente ma sentivo i loro sguardi di condanna su di me. Il cliente che stavo servendo, tornò timidamente al bancone. Guardò me, guardò il Corea, quindi guardò di nuovo me, poi iniziò a starnazzare scandalizzato: “Signora non le sembra di aver esagerato?”
“Cosa sta dicendo scusi?”
Quello iniziò a saltellare, sperando di farsi notare dal Corea e dalla sua combriccola: “Ma insomma, lei sa chi è la persona che ha appena maltrattato? È il sindaco di questa città. Insomma, mi scusi, ma credo che dovrebbe chiarire l’equivoco e chiedergli scusa.”
Lo guardai inorridita: “Il sindaco in questo momento è un cittadino come tutti gli altri. Io sto solo facendo rispettare il regolamento. La prego, facciamo in fretta”
“Io capisco e rispetto che lei abbia idee diverse dal sindaco” –replicò il cliente incoraggiato dai sorrisetti della combriccola– “ma fino a questo punto è arrivato il vostro odio politico? Eppure dovreste accettare il risultato delle elezioni. Insomma se la gente ha scelto lui come sindaco cosa vuol dire che la gente è tutta scema?” 
“Non centra niente la politica” –ribattei con fermezza– “è questione di regole.”
Il cliente scosse la testa poco convinto. E con un gesto plateale fece passare il sindaco davanti a sé.
La moglie e i leccaculi si piombarono sul bancone. Il Corea li fermò. Con aria da vittima proclamò: “E’ evidente che in questo ufficio le Istituzioni non sono gradite! Torneremo un’altra volta”. Quindi si allontanò. Il cliente, continuando a scodinzolare, gli lasciò il suo biglietto da visita. Il Corea lo accolse sorridendo e gli promise eterna gratitudine; svoltato l’angolo buttò il biglietto e si dimenticò in fretta il nome di quel cretino.
Non dimenticò mai il mio invece.
Ho saputo poi che al ritorno a casa era furioso. Sfondò un nano da giardino urlando bestemmie contro di me. È intollerabile per i potenti mediocri come lui non ricevere una sottomissione immediata. Era comprensibile che rifiutassi di piegarmi a quella scema di sua moglie o ai suoi tirapiedi ma a Lui, il Corea in persona, come osavo dire no al Corea?
Qualche mese dopo la direzione postale mi comunicò che ero stata trasferita. Una decisione piovuta all'improvviso, della quale non ho mai avuto spiegazioni. Ma è fin troppo evidente chi mi ha spedito fuori dalla città di sua proprietà.”
Abbracciai quella piccola donna coraggiosa e piena di dignità. Tornando a casa giurai che il Corea avrebbe pagato anche per quello. Avrebbe invocato pietà anche per quello stupido e ingiusto abuso di potere.

Continua... 

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