venerdì 23 dicembre 2011

Ma un giocatore lo vedi dal Coraggio. La storia di Simone Farina.

Se lo scandalo del calcio-scommesse fosse un film, lui sarebbe l’eroe buono e tormentato.  La storia di Simone Farina è di una quelle storie di straordinaria normalità cui aggrapparsi quando ci sembra che  il mondo rotoli in una dimensione senza valori e senza ideali. Fino a pochi giorni fa, Farina era uno sconosciuto difensore del Gubbio. 29 anni e due bambini, facilmente riconoscibile per la lunga chioma bionda, è romano e romanista. La sua carriera è di quelle che si definiscono dignitose ma non certo esaltante, tutta consumata fra le squadre di provincia che lottano fra la Serie B e la Prima Divisione, lontano dal mondo dorato degli stadi stracolmi, della pay-tv e dei commentatori-ultras. Lontano dai riflettori e di conseguenza lontano dalle polemiche. E in questo ambiente che è cresciuto lo scandalo delle partite combinate con i suoi protagonisti mediocri e burini: l’ex idolo intoccabile che fugge in mutande all’arrivo della polizia o che tenta di bissare le intercettazioni con un’improbabile voce in falsetto; il portiere che narcotizza il the dei suoi compagni di squadra; la vecchia gloria che gioca un chilo d’euro (un chilo di monete pesate con la bilancia!) o i secondi impiegati per ingoiare una merendina. Un sistema talmente radicato che quando Simone rifiuta la proposta di un certo Alessandro Zamparini, l’altro immagina che sia una questione di denaro. E per truccare Gubbio-Cesena, a Simone arrivano a proporre fino a 200.000 euro. Deve far perdere la sua squadra con largo margine e far vincere alle scommesse un oscuro boss indonesiano e i suoi compagni di merende. 200.000 euro sono tanti, sono il doppio di quanto Simone guadagna in un anno. È la telefonata, forse, più impegnativa della sua vita. Zamparini, all’altro capo del telefono, insiste e promette di tutto: soldi facili, premi e sotterfugi, un aiutino per la sua carriera, una mano per salvare il Gubbio se le cose si metteranno male a fine campionato. Ma Simone Farina diventa sempre più inamovibile e si rifiuta. Zamparini lo saluta con il gesto del silenzio: attacca cioè la cornetta senza salutarlo. Nel linguaggio mafioso è un segnale di avvertimento. Ma dopo aver rinunciato a tutti quei soldi, consapevole probabilmente di chi si stava mettendo contro (ma il Coraggio, insieme all’Altruismo e alla Fantasia, è una delle tre caratteristiche da cui si vede un giocatore secondo la celebre canzone di De Gregori) il difensore –in tutti i sensi della sua squadra– va oltre: prima confida la tentata combine al presidente della sua società e poi denuncia tutto quello che ha saputo ai magistrati. In un mondo come quello del calcio che si nutre si sogni e di episodi, il suo gesto ha commosso i tifosi di tutte le squadre e di tutte le categorie. Ha regalato a chi segue questo sport uno spiraglio di speranza e la certezza che, nonostante tutto, valga ancora la pena passare le domeniche pomeriggio (o il sabato, o il lunedì o il mercoledì, maledetto campionato spezzatino!) a esultare e ad inveire dietro al pallone, lontani per un po’ dalle preoccupazioni della vita. Simone l’Eroe che ha salvato il calcio ha ottenuto un premio speciale: la convocazione in Nazionale. Il ct Prandelli non poteva non inserirlo nel suo progetto di rilancio etico. Verrà per allenarsi con i giganti della Serie A e forse, se capita l’occasione buona, si farà anche qualche amichevole.  Ma la storia di questo calciatore onesto va oltre gli stadi: nell’Italia in ginocchio per colpa dell’ingordigia di pochi, ricorda che vale sempre la pena tenere la schiena dritta. Chi si vende guardagna sempre molti soldi. Ma non basteranno mai per riscattare il marchio di traditori che si porteranno dietro per tutta la vita. E potranno corrompere chi vogliono ma non il giudice implacabile e terribile che li aspetta ogni mattina davanti allo specchio: il giudice della loro coscienza.

domenica 18 dicembre 2011

Nel nome del cemento, l'ex Mulino sotto assedio

Guardate la foto qui affianco. Il volto di una misteriosa Santa spicca all'improvviso fra i pezzi d'intonaco che cadono, i fili della corrente, il degrado più assoluto. La donna ci guarda stupita e preoccupata. È ritornata alla luce, dopo essere rimasta per secoli sepolta sotto la calce e l’indifferenza. Piombata nel futuro all’improvviso come in un film, sembra chiedersi cosa ne è stato del suo mondo. E soprattutto perché sia stata dimenticata da tutti. Purtroppo per lei si trova in Italia e il suo Paese non vuole spendere soldi e tempo per l’arte (“con la cultura non si mangia” affermava sprezzante l’ex ministro dell’economia). E purtroppo per lei si trova a Cisterna, città in cui la sensibilità artistica della politica è ancora più bassa di quella che aveva Tremonti. La maggior parte dei suoi concittadini ne ignora persino l’esistenza, solo i pochissimi appassionati della storia locale sanno che l’ex Mulino Luiselli, il rudere abbandonato che domina la parte settentrionale del Corso della Repubblica, un tempo era il Convento francescano di Sant’Antonio Abate. La struttura dotata di una chiesa, un campanile e un curioso chiostro a tre lati venne fatta edificare nel 1568 dal Duca Bonifacio Caetani, poco fuori le mura dell'allora città, fra la campagna e le case. Per due secoli, il Convento ospitò fra i dieci e i quindici frati e i Caetani si impegnarono ad abbellirlo chiamando i fratelli Zuccari, Girolamo Siciolante da Sermoneta e il francese Duperac. Le cronache dell’epoca descrivono la chiesa con sei altari e ricca di affreschi e dipinti. E a quest’epoca cui va dotata probabilmente anche la Santa stupita e preoccupata. Il chiostro riportava la vita di San Francesco come si usava allora e sotto la chiesa si trovava anche una serie di grotte e cripte simili a quelle sotto Palazzo Caetani. Poi nel XVIII secolo i frati e i Caetani litigarono per ragioni economiche e se ne andarono. Il Convento attraversò varie vicissidutini, fu affidato ad altri ordini poi fu sconsacrato e usato come porcile, cantina, stalla per le bestie. Passato alla famiglia Luiselli, agli inizi del Novecento, fu ampliato e trasformato in un mulino industriale. Intanto il suo tesoro artistico veniva disperso. L'altare centrale fu portato a Tor Tre Ponti, le campane a Sermoneta, un trittico a Roma. Gli affreschi furono ricoperti con l’intonaco e dimenticati. Poi negli anni Settanta il Mulino fallì e fu abbandonato al suo destino. Diventò così il rudere che vediamo oggi, quello che grazie alla sua posizione rialzata, domina tutta la città. Nell’area che lo circonda, dove c'era il rigoglioso orto-giardino dei frati oggi si rifugiano le coppiette in cerca d’intimità. Ma oltre all’incuria e all’abbandono, sul Mulino e sui suoi tesori si è allungata l’ombra cupa della speculazione edilizia. Nel 1993 viene presentato un progetto che ne prevedeva l’abbattimento e la realizzazione di un centro commerciale. Il WWF locale si ribella e fa ottenere dal Ministero dei Beni Culturali il vincolo di tutela. L’ex Convento entra a far parte del patrimonio artistico nazionale e diventa così protetto dallo Stato. La speculazione non si arrende e le tenta tutte per aggirare il vincolo fortunatamente senza riuscirci. La svolta arriva nell’ultimo anno, viene presentata una convenzione pubblico-privato: il Comune entrerà in possesso dell’ex Mulino e in cambio consente l’edificazione dell’area intorno. In pratica la condanna a morte del Convento, stritolato dal cemento e dall’asfalto. Il progetto, così come è stato presentato, inoltre distruggerà una parte del bene vincolato, le grotte sottostanti, devasterà il paesaggio e l’ambiente circostante. “Un accordo folle” –denunciano i volontari del Comitato “Sant’Antonio Abate” che lottano contro tutto e contro tutti per restituire il monumento alla città– “tutto a vantaggio del privato che guadagnerà da questa operazione quattro milioni di euro a fronte dei due milioni a vantaggio della Pubblica Amministrazione.” Il Comitato ha rivolto un appello al sindaco Merolla perché non firmi la Convenzione, in caso contrario sono pronti a ricorrere alla giustizia. Nel frattempo lavorano per mobilitare l’opinione pubblica e far conoscere alla città il suo tesoro dimenticato. Uno spazio che anziché essere massacrato da altro inutile cemento puo’ essere rivalutato e messo a disposizione per realizzare musei, mostre, spazi aggregativi per i giovani, lavori per cooperative sociali e associazioni di volontariato. Ma nel frattempo, da vent’anni almeno tutto è bloccato e il Mulino lentamente muore. I suoi capolavori rischiano di scomparire per sempre, qualcuno già non c’è più. Come la Santa della fotografia che ammiravamo prima, misteriosamente distrutta a picconate qualche anno fa.


Quest'articolo è stato pubblicato nel numero di dicembre di "Collettivamente", mensile dell'associazione Eupolis. 

martedì 29 novembre 2011

La Fame/2

Seconda parte


Da quella prima volta erano passati circa due anni. Quando vedeva Giulia non provava quella sensazione di serenità che immaginava fosse l’amore. Provava inquietudine. La paura quasi che lei avesse Fame di nuovo e lo trascinasse in qualche luogo isolato e lo divorasse ancora una volta.
Le prime volte, quando rientrava a casa dolorante e svuotato, si prometteva che l’avrebbe lasciata e sarebbe tornato a dedicarsi ai suoi studi. Si era immaginato più e più volte la scena dell’addio. Le si sarebbe avvicinato delicatamente: “Tesoro la nostra storia non funziona” (“No! Non puoi dirmi così!”) “Tesoro mi dispiace ma dovremmo prendere una pausa di riflessione” (“E’ colpa mia, dimmelo se è colpa mia, ho sbagliato in qualche cosa?”) “Tesoro mi dispiace” e allora lei sarebbe fuggita in lacrime e lui sarebbe stato libero. L’amore non faceva per lui. Quel tipo di amore non faceva per lui.
Ma non trovava mai il coraggio di farlo. Giulia c’era sempre quando aveva bisogno di condividere una gioia o un dolore. Giulia lo difendeva sempre e i suoi consigli erano sempre saggi e giusti. E poi Giulia lo aspettava sempre con gli occhi devoti delle innamorate di un tempo. Come poteva lasciarla? Come poteva tradire quel suo sguardo dolce e profondo?
Aveva cercato, quindi, di parlare con lei di quel problema. Insieme avrebbero potuto trovare una soluzione. Ma ogni volta che lui accennava al sesso, a Giulia tornava la Fame e lo travolgeva. Rimaneva così a galleggiare in una perenne indecisione confidando ogni volta che quella sera lei avesse un mal di testa o il ciclo o cose simili e saltassero l’appuntamento con la perversione.
Poi un mese prima era arrivato il terremoto.
Era una mattina come tante altre, si era alzato all’alba, aveva fatto colazione e si apprestava ad andare all’Università, dove era divenuto nel frattempo ricercatore. Sua madre lo fermò sulla porta: “So tutto!” –disse sorridente e commossa– “La mamma di Giulia non sa tenere i segreti! Le hai chiesto di sposarla!”
A quell’annuncio la valigetta era caduta a terra. Il dolore era tornato improvviso e lacerante. Le gambe si irrigidirono. Il cuore partì in quarta. Supplicò il suo corpo di fermarsi. Si riprese a fatica e liquidò sua madre con la scusa dell’Università e fuori di casa chiamò Giulia allarmato. Scoprì che lei aveva deciso già tutto. Si sarebbero sposati quell’estate.
“Non è bellissimo amore?” concluse lei. Lui annuì poco convinto, attaccò il telefono e pensò che avrebbe trascorso tutte le notti con lei. Con la sua Fame. Sentì il fuoco bruciare e il dolore tornare. Si accasciò ad un muro e si accorse che tremava e sudava.
“Ha bisogno di aiuto signore?” domandò una ragazza. Lui la mandò via, si alzò, si asciugò e salì sulla sua auto. Arrivò a casa di Giulia e le chiese di scendere.
La ragazza lo accolse sorridente e devota: “Ciao futuro maritino.”
“Maritino un corno” le rispose. E tutta la rabbia repressa in quasi trent’anni di vita uscì come lava da un vulcano, iniziò ad urlare e liberò tutti gli urli rimasti prigionieri quando soffiava la notte sulle scale.
Le urlò che era la peggiore donna dell’universo, che non poteva calpestarlo in quel modo e che non si sarebbero mai sposati. Anzi la storia finiva in quel momento preciso. Finalmente libero, lui guardò la Divoratrice e temette che le fosse tornata la Fame. Invece la ragazza lo fissò sgomenta e –lasciandolo senza risposte– scappò in lacrime, biascicando le peggiori parolacce di questo mondo.

Guardò la sveglia accanto al comodino. Era una notte interminabile, il sonno non arrivava. Si domandò perché avesse ripercorso mentalmente la sua storia con Giulia.
Il dolore tornò a tradimento. Si contrasse su se stesso e stanco di soffiare, finalmente gridò. Sentì un gemito nella stanza dei suoi. Sudava.
Poteva continuare così? No che non poteva. Doveva raccogliere il coraggio di quella mattina e lasciarla definitivamente. Ma poi si ricordò la seconda parte di quel giorno.  
Lui l’aveva vista andar via, arrabbiata e disperata, e aveva sentito un altro dolore che non gli lacerava il corpo ma l’anima.
Poi aveva sentito un altro fuoco ma non stava bruciando l’inguine ma il cuore.
Poi aveva sentito voglia di essere travolto, divorato, distrutto, sottomesso. 
Aveva Fame. 
Sentì i suoi occhi iniettarsi di sangue e il suo viso perdere ogni lineamento. Fame. Fame. Fame. Poi scoppiò a piangere. Giulia era diventata la sua droga, dipendeva da lei, dalla sua Fame. Anche se gli faceva male e gli procurava dolore fisico, ne sentiva un bisogno fortissimo.
“Passerà” si era detto. Invece nei giorni successivi si svegliava sempre più inquieto e nervoso. Ogni cosa ricordava Giulia, ogni cosa gli faceva venire Fame.
Per non pensarci si buttò anima e corpo nel lavoro. Ma, dopo pochi muniti, vedeva il suo computer perdere ogni dolcezza e trasformarsi in lei. Ebbe Fame come mai in vita sua. Si morse una mano dalla disperazione, ma la Fame era più forte. La Fame iniziò ad espandersi dentro di lui. Il suo stomaco aveva Fame, il suo fegato aveva Fame, il suo cuore aveva Fame, i suoi polmoni avevano Fame, la sua anima aveva Fame.
Prese il telefonino e cercò il numero di Giulia sulla rubrica. Si fermò. Come poteva chiedergli di fare l’amore dopo che l’aveva trattata in quel modo.
Uscì dall’Università in anticipo con la scusa di un’emicrania. Si diresse nel parcheggio. Sapeva che c’erano donne africane che per pochi euro si vendevano. La trovò subito una disponibile. La trascinò nella sua automobile e iniziò a baciarla e a spogliarla. Ma pochi minuti dopo si stufò e lasciò perdere. Quella prostituta non poteva compensare la sua Fame.
Gli ci vollero diciannove giorni, quattro ore e ventisette minuti per ottenere il Perdono di Giulia. La ragazza sulle prime non si fidò, poi non era sicura di amarlo ancora, poi non era sicura che lui lo amasse veramente. Ma alla fine si erano fidanzati di nuovo. Lui aveva ceduto su tutta la linea, alla fine aveva accettato anche il matrimonio quell’estate. Mancavano solo quattro mesi alla data stabilita.
Quella notte avevano fatto di nuovo l’amore. Avevano soddisfatto entrambi la loro Fame. Lui era ritornato dolorante a casa e con il dolore era tornata la sua inquietudine. Si domandò se era davvero pronto ad unirsi tutta la vita con lei. Tutta la vita con la sua Fame. Sentì il male ritornare. Grossi aghi li perforarono la pancia, l’inguine, le gambe. I piedi si bloccarono e lui soffiò per non gridare. Tutte le notti così. E iniziò a tremare…

FINE

lunedì 28 novembre 2011

La Fame/1

Prima parte

Rientrò a casa a notte fonda. Ringraziò il Cielo che fosse così tardi, perché se qualcuno l’avesse visto in quelle condizioni, avrebbe dedotto scandalizzato che avesse alzato il gomito. Invece era lucidissimo. Se stava così era tutta colpa del dolore. Un dolore atroce che gli bruciava le parti intime e gli faceva sentire le sue gambe rigide e bloccate e i piedi aperti e piatti, come un’anatra. Risaliva le scale aggrappandosi alla ringhiera, barcollava e cadeva giù. Chiudeva gli occhi, lacrimava, riprendeva fiato, soffiava e saliva, sperando di arrivare presto alla meta. Sapeva che tutto ciò non faceva bene al suo fisico, il suo buon senso gli consigliava di recarsi al più presto da un medico. Ma lui non l’avrebbe mai fatto. Si vergognava. Aveva immaginato più volte la scena dell’ipotetico colloquio. Lui col volto basso confessare l’origine di quella sofferenza e il dottore che lo guardava col sorrisetto che riservava ai pazienti imbecilli. E se il suo strano caso –per vie traverse– fosse giunto alle orecchie dei suoi conoscenti? Impallidì soltanto all’idea. Nessuno lo avrebbe capito e sarebbe diventato la barzelletta della città.
Il suo era davvero uno strano caso. Tutto quel dolore era dovuto al fatto che la sua donna lo amasse troppo. Poteva lamentarsene –anche solo nella stanza asettica di un ospedale– quando, ricordava bene i sospiri dei suoi amici innamorati perché le loro fidanzate erano sempre così limitate?
Qualcosa si ruppe sotto l’ombelico. Soffiò più forte per non gridare. Grosse spine pungevano sotto la sua pelle cercando di squarciarla.
Si accasciò sui gradini gelidi. Come invidiava le donne limitate dei suoi amici. Loro non tornavano così a casa.
Poi il disagio fece di nuovo capolino.
Perché non riusciva ad apprezzare la sua Giulia come avrebbe fatto –ne era certo– il novantanove per cento degli uomini?
Si rialzò e a fatica conquistò il portone. Il suo corpo tornò a bruciare e lui a soffiare. Strusciando arrivò fino al letto. Il male scivolò via ma non riuscì a chiudere occhio.
Iniziò così a pensare.
Aveva conosciuto Giulia quando era uno studente secchione che passava le sue giornate chiuso in biblioteca. Stava lavorando per la tesi –concludeva l’Università con un anno di anticipo– e l’aveva impostata su un argomento originale e impegnativo che aveva stupito i professori. Minuzioso com’era cercava ovunque il materiale che gli servisse e con quello studio matto compensava la sua solitudine, dato che, uno dopo l’altro, aveva perso tutti gli amici di un tempo.
Poi un giorno nacque in lui il desiderio di amare.
Arrivò all’improvviso. Prima non riteneva fondamentale per la sua esistenza avere una compagna. Dedicava la sua vita ad altro, alle sue passioni, alla musica, all’arte, ai viaggi, allo studio. Nel suo mondo non c’era bisogno di una donna. Ora gli sembrava impossibile vivere senza. Iniziò così la sua ricerca. Iniziò battendo tutte le strade possibili del rimorchio: le code in facoltà, i sorrisi fugaci per strada, le colleghe in biblioteca, le chat di Internet. Alla fine come nei classici, quando ormai disilluso, stava per gettare la spugna, arrivò Giulia. Si conobbero un sabato mattina, nel salotto di casa. Il suo futuro suocero stava male in quel periodo e, insieme a sua madre –lontana amica di quella famiglia– erano passati a trovarlo.

Ricordava bene quell’attimo in cui i loro sguardi si erano incrociati. Giulia aveva abbozzato un sorrisino, lui aveva ricambiato.
E mentre immaginava di scaldarla con un abbraccio e la guardava imbambolato, Giulia si era alzata, determinata e decisa e lo aveva avvinghiato: “Mi dispiace per tuo padre. Spero si riprenda presto”. Lui si sentì invadere da un calore mai sentito prima e le aveva accarezzato i capelli, sperando che quel momento non finisse mai.
E tutto era iniziato da lì. Con la scusa del padre malato, si sentivano spesso e senza neanche capire come si fidanzarono. Ricordava l’orgoglio con cui, mano nella mano, passeggiava con lei nei corridoi dell’Università. Tutti li guardavano (invidia? stupore?) e lui era felice.
Una settimana dopo erano usciti insieme. Era una sera felice e lui vedeva le stelle anche se il cielo era più oscuro del solito. Giulia lo aspettò sotto casa frenetica e felice. Si scambiarono un bacio timido. Erano impacciati, erano entrambi alle prime esperienze anche se avevano superato da un pezzo l’adolescenza.  
Lui aveva voglia di andare oltre, ma non ne aveva il coraggio. Era presto, era ancora troppo presto. E poi aveva paura di spogliarsi, certo di emanare un pessimo odore, malgrado la sua mania per l’igiene: “D-dove vuoi che ti porto amore?" -le domandò timidamente- "Questa è la nostra prima sera insieme”
“Oh io conosco un posto. È proprio bello. Però…”
“Però?”
“Non vorrei sembrarti troppo…come dire…”
“Tu non mi sembrerai mai troppo.”
“Vorrei farti una sorpresa. Posso guidare io?”
“Certo amore.”
Si scambiarono i posti e lei partì. Inchiodò poco dopo. Ripartì quando lui –dopo una breve resistenza– acconsentì a farsi bendare. Lei riprese il volante e guidò sicura per qualche chilometro.
Lui non vedeva niente. Ogni tanto chiedeva se poteva abbassare la benda e Giulia ridendo gli diceva di no. Quando si fermarono lui richiese il permesso, ma lei non gli rispose nemmeno. Non voleva togliersi la benda per educazione e usò, allora, gli altri sensi per capire dove fossero: sentì intorno a sé un silenzio profondo, poi odorò il profumo dell’oscurità, poi il profumo di Giulia.
Scoprì di essere nudo.
Balbettò qualcosa e in pochi secondi disse addio alla sua verginità. “No! Non così” piagnucolò dentro la sua mente.
Si strappò la benda e vide –per la prima volta– la sua Giulia trasformata, i suoi occhi piccoli e bianchi, i capelli arruffati, la violenza animale e primordiale contratta in ogni suo muscolo. Non sembrava più un essere umano.
Giulia aveva ruggito: “Ancora! Ancora! Ancora!” ed era ripartita. Lui aveva tentato un goffo abbraccio ma poi aveva ceduto alla voracità della sua donna. “E’ posseduta dal Demonio” pensò terrorizzato, senza provare nessun tipo di piacere e sperando che tutto finisse in fretta.
Giulia era fragile, tenera, pratica e silenziosa. Non rompeva le scatole a nessuno e nessuno le rompeva a lei. Erano una coppia perfetta, la cui massima ambizione per il futuro erano una casetta col giardino e lo stipendio fisso a fine mese.
Ma quando arrivano quei momenti Giulia si trasformava. Nell’oscurità in cui si appartavano, lui sentiva la sua ansia crescere. La sua Fame. Lui si avvicinava timidamente, le sfiorava la pelle e in pochi secondi si ritrovava capovolto. Stordito, non capiva più niente. Intanto lei lo divorava, il suo volto da brava ragazza si trasformava, perdeva ogni lineamento, ogni segno di grazia. Lui stava lì sottomesso e fermo e aspettava la fine. 
Giulia non era mai soddisfatta e se lo era aveva ancora più Fame. Dopo pochi minuti –il tempo di respirare, riprendere fiato e dolcezza– tornava a divorarlo senza che lui riuscisse neanche a capire. E ancora, ancora, ancora, fino a quando lei non era esausta, si appoggiava al finestrino e dormiva. Lui allora riprendeva i sensi, la conoscenza di sé, accendeva la macchina e riportava la bestia a casa. Sentiva il male attraversargli il corpo e aveva voglia di gridare ma non gridava perché lui non gridava mai. Soffiava però, perché per non esplodere, il dolore doveva in qualche modo uscire dal suo corpo.

Continua...

martedì 15 novembre 2011

Non è un paese per giornalisti (la libertà di stampa a Cisterna)

Fino a poco tempo fra i commenti di un noto blog locale era facile trovare –indipendemente dal post riportato– insulti e attacchi di vario genere da parte di alcuni anonimi. L’obiettivo era sempre lei: Daniela Del Giovine, corrispondente da Cisterna per “Latina Oggi”, lo storico quotidiano della provincia pontina un tempo proprietà del fascista Ciarrapico ed ora passato nelle mani di una cooperativa indipendente. Prima che finalmente i gestori del sito iniziassero a filtrare i commenti, Daniela veniva insultata e attaccata per i suoi articoli, sgraditi da sempre a chi comanda in città. Eppure il mestiere del cronista è proprio questo: riportate le notizie, anche se a qualcuno non piacciono. “La stampa libera” –ci spiega Daniela– “crea cittadini consapevoli. Il cittadino che ha la possibilità di avere tante informazioni, di metterle a confronto, diventa un cittadino consapevole. La consapevolezza porta l'individuo a fare delle scelte nella sua vita, nel suo lavoro, in politica, in ogni momento della sua giornata. Un bambino ha bisogno di essere sostenuto, indirizzato e guidato, un uomo diventa adulto quando compie scelte in base alla sua esperienza ed in base alle informazioni in suo possesso. Così un popolo, diventa adulto quando ha la capacità di elaborare tutte le informazioni esistenti in un dato periodo storico. Ma le informazioni devono esserci.” Ma Cisterna non è un paese per giornalisti, specie se liberi. Come tutta l’Italia purtroppo. Il nostro Paese detiene il record europeo di cronisti sotto scorta e nella classifica dell'organizzazione indipendente americana "Freedom House" siamo al 73° posto, fra il Benin e la Repubblica di Tonga. Una posizione che ci rende ultimi nell'UE e che ci umilia al rango di "stato semi-libero". Dopo le censure degli anni 2000 (la più celebre é senza dubbio l'editto bulgaro) oggi l’arma più potente contro la stampa, soprattutto per quella di provincia composta perlopiù da giovani precari, è l’arma della denuncia: “Il nostro sindacato” –ricorda– “le chiama querele temerarie. Vengono richieste delle cifre allucinanti di danni, cinquanta-centomila euro solo per aver “citato” questo o quella persona importante. Con i tempi della giustizia italiana, sono un fardello pesante da sopportare. A volte basta la paura di dover metter un avvocato costoso a condizionare molti. E molti scelgono la strada dell’autocensura. Io per quanto mi riguarda, tento di raccontare le storie in tutte le loro sfaccettature comunque, a volte penso che quel minimo di conoscenza del diritto per me sia stata l'unica salvezza finora. Insomma a volte è meglio raccontare, danzando sulle punte e dicendo sempre le cose come stanno” Ma se danzare sulle punte forse fa sfuggire alle querele, la vita di un giornalista non è mai serena: “Ormai ognuno di noi mette in conto che riceverà minacce, pressioni, insulti. Io ho tanto da imparare da chi in Italia e anche in questa Provincia va avanti compiendo il suo lavoro e subendo di tutto. A me la cosa che capita più spesso è che ad esempio Tizio dice una cosa sgradevole su Caio. Caio la legge sul giornale e si arrabbia molto ma poi se la prende con la sottoscritta. Io replico loro quando mi urlano al telefono: ma rispondi a chi ti dice certe cose, io le ho soltanto riportate. A volte ricevo persino dei comunicati stampa, delle cose inopinabili. Il principio assurdo è che la colpa è sempre del giornalista che scrive certe storie, non di chi le fa.” Ma un giornalista che riporta certe storie che colpa ha? Non sta facendo il suo mestiere come lo facevano i maestri che fanno studiare nelle scuole del mestiere: Enzo Biagi, Indro Montanelli, Oriana Fallaci? Non sta semplicemente esercitando un diritto riconosciuto dalla Costituzione, quella sulla quale tutti i politici giurano quando entrano in carica e che all’articolo 21 proclama con solenne semplicità: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”. “Quelli che vogliono distruggere la Costituzione” –commenta la giornalista– “non sono dei pazzi ignoranti. Sono, al contrario molto preparati perché sono ''consapevoli'' delle garanzie poste nella Carta e che per loro sarebbe meglio cancellarla. Chi vuole smantellare certi articoli è perché è ''consapevole'' della rigidità delle regole e soprattutto che uno non può fare come gli pare. Quando si legge la Costituzione, si leggono le sofferenze subite da un popolo e l'amore dei costituenti per le generazioni future, perché grazie a lei nessuno può alzarsi la mattina e dire tolgo questa o quella garanzia e tutela. I nostri padri ne sapevano qualcosa e ci hanno lasciato un grande dono.” Ma secondo Daniela Del Giovine anche i lettori, l’opinione pubblica, ha le sue colpe se la libertà di stampa è sempre sotto pressione: “Quanta curiosità e fame di notizie hanno i cittadini? Quanti sono gli individui adulti e consapevoli che vogliono scegliere il loro destino ogni giorno? Quanti sono curiosi? Secondo me c'è una proporzione anche in questo. Questa è la terra dove si scambiano diritti per favori. Possono dare retta a qualcuno che ti scrive le cose come stanno? Tante persone consapevoli fanno la Libertà di Stampa. Bisogna avere fame di notizie, poi tutto il resto arriva da solo” Inutile chiederle se lei o i suoi colleghi hanno mai ricevuto solidarietà, anzi la sua risposta è durissima: “Quando si arriva agli estremi, ad avere cronisti e scrittori sotto scorta, o addirittura uccisi, significa che è già troppo tardi. Poi facciamo le manifestazioni con la faccia dello scrittore, ma li strumentalizziamo solo per dire che combattiamo per la libertà di stampa. In realtà un giornalista è solo, perché chi fa bene questo mestiere non fa comodo a nessuno. Ma con la rivoluzione araba si è dimostrato che è la censura è inutile. Oggi i mezzi di comunicazione sono tanti, basta un video caricato sul Web da qualsiasi cittadino per dare una notizia. La stampa tradizionale ha due possibilità: o si adegua e compete con le notizie che provengono dai cittadini, offrendo chiavi di lettura autorevoli o soccombe.”  

Articolo uscito sul numero di novembre di Collettivamente, rivista ufficiale dell'associazione Eupolis di Cisterna.

giovedì 13 ottobre 2011

Ho lottato

Ho lottato e infine ho perso.

Le mie uniche armi erano l’allegria, la fantasia. Armi inutili contro l’invidia e l’egoismo. È stata una lotta impari. Nulla potevano.

Ora sono qui a terra, moribondo fra le macerie della mia città distrutta.

Ho lottato usando l’allegria e la fantasia,
ho lottato, ho perso
ma io lo so, prima che la battaglia iniziasse
io avevo già vinto. 

venerdì 7 ottobre 2011

Don Cesare Boschin, eroe dimenticato

"Non mi darò pace finché non sorga 
come stella la giustizia la verità 
non risplenda come lampada
(Isaia 62, 1)


Borgo Montello è una piccola frazione di tremila abitanti, quasi tutti discendenti dai pioneri arrivati dal Veneto negli anni della bonifica fascista, e che ancora vivono coltivando la fertile campagna strappata alle paludi. Ma dietro l’immagine bucolica, si nasconde una storia maledetta. Ai tempi dello Stato della Chiesa qui si nascondevano i criminali in fuga dalla polizia pontificia. Qui si consumò l’omicidio di Santa Maria Goretti, dopo che si ribellò ad un tentativo di stupro. Terra maledetta perché quando la palude fu sconfitta, furono scelti proprio i dintorni del Borgo per installarvi una delle discariche più grandi d’Italia.
Le terre che ospitano discariche sono sempre maledette. Oltre alle conseguenze ecologiche e sanitarie, intorno al ciclo dei rifiuti girano milioni di euro e i milioni di euro attirano la criminalità organizzata. A Borgo Montello la camorra casalese sarebbe arrivata –così dicono alcuni pentiti– nei primi anni ’90. Sempre secondo i pentiti è in quel periodo che in quella discarica iniziano a finire anche rifiuti tossici e chimici. Roba pericolosa. Parlano di disoccupati locali reclutati a 500.000 lire a volta per andare a scaricare di nascosto. Uno di loro, licenziato, si vendica denunciando i traffici.
Borgo Montello vive d’agricoltura e quelle notizie spargono il panico fra la gente. Temono che sulla loro pelle si stia giocando una partita sporca. Ma le persone da sole hanno paura e si limitano a maledire i grossi tir che sentono la sera, diretti alla discarica.
È l’anziano parroco di Borgo Montello, don Cesare Boschin, a dare fiato alle preoccupazioni della sua gente. Don Cesare ha ottant’anni e origini venete come i suoi parrocchiani. E dal 1950 che serve questa comunità, ne conosce tutti i segreti, i silenzi, i ricordi, le paure. Sente che il suo dovere di pastore lo chiama ad agire. Capisce che non è diventato prete per nascondersi e far finta di nulla.
Mette in piedi un comitato per la legalità e inizia a protestare, a far rumore. Convicono l’allora sindaco di Latina, Ajmone Finestra, a chiedere un’indagine su ciò che si nasconda nella discarica. È l’inchiesta accertò la presenza di “un’anomala massa metallica”. La notizia fa scalpore e inizia ad occuparsene anche la questura.
Ma tutto questo a qualcuno non piace. Sui muri di Borgo Montello compiaiono scritte minacciose, l’anziano parroco riceve intimidazioni. Ma don Cesare non si fa fermare, decide solo di muoversi con maggiore cautela. Prende il telefono e chiama un potente politico romano. Gli chiede la fine dei traffici dei rifiuti tossici.
La mattina del 30 marzo 1995, la signora Franca Rosato entra nella canonica e si trova davanti una scena agghiacciante: sul letto, incaprettato c’è il cadavere di don Cesare. Una corda gli lega mani, piedi e collo. Il volto scavato e il corpo magro sono ricoperti di lividi. La mascella è fratturata. Le percosse subite gli hanno fatto ingoiare la dentiera. “Morte per soffocamento” stabilirà l’autospia.
Quel terribile omicidio fa scendere in fretta e in furia il silenzio sulla discarica. Le indagini neanche provano a cercare in quella direzione. Si pensa ad un tentativo di furto andato a male e si scava ai margini della società: fra i Rom, gli extracomunitari, i tossicodipendenti. Ma nella canonica non è stato toccato niente: il portafoglio del sacerdote con le 700.000 lire della pensione è rimasto intatto. I presunti ladri non hanno toccato neppure i cinque milioni nascosti fra i libri raccolti per alcuni lavori in chiesa. Gli unici oggetti scomparsi sono le due agende del parroco, agende in cui don Cesare annotava qualunque cosa. Due agende come quelle di Paolo Borsellino, anche quelle mai più ritrovate.
Qualcosa non quadra. La polizia allora inizia a dare credito ad alcune voci che girano nel Borgo dalla morte di don Cesare. Anche buona parte della stampa, dopo aver descritto l’anziano prete come un vecchio rimbambito, riporta quelle chiacchere: pare infatti che quel sacerdote conducesse una doppia vita, che il suo nome fosse abbastanza noto fra gli ambienti gay della zona, che pagasse qualche ragazzo per una notte insieme. Si arriva a dire che avesse mostrato bizzarre attenzioni verso i cherichetti. Si fa strada una nuova teoria: la notte dell’omicidio don Cesare avrebbe ospitato in casa giovani sbandati in cambio di un rapporto sessuale ma poi la situazione sarebbe degenerata. Arrivano anche le televisioni nazionali a scavare nel fango e nel torbido. A nessuno viene il dubbio che é difficile che un uomo di 81 anni, anziano e per di più con una cronica malattia ai polmoni che gli rendeva difficile anche dormire, possa avere una vita sessuale così intensa. Nessuno sembra ascoltare le smentite sdegnate ("Sono solo calunnie") di tutti i collaboratori della parrocchia, compresi quelli più giovani. Ma anche le indagini volgono con decisione in questa direzione: la polizia arriva ad interrogare più di trecento persone senza trovare la minima prova. Alla fine si opta per l'archiviazione del caso. Come accaduto sulla discarica, anche sulla storia di don Cesare cala il silenzio. Il silenzio inghiottisce tutto e fa sparire ogni cosa, come un buco nero. La straordinaria operazione di pulizia della memoria collettiva riesce con successo: nella nostra provincia la gente ricorda ogni minimo dettaglio dell'omicidio dei fidanzatini di Cori ma cade dalle nuvole quando sente parlare di questa storia. Il ricordo di don Boschin rimane per anni confinato nella rassegnazione della piccola comunità di Borgo Montello dove gli dedicano l'oratorio. Tuttavia grazie alla solitaria battaglia di alcune persone, la vicenda lentamente esce dal dimenticatoio. Nuove indagini commissionate a partie dal 2003 hanno dimostrato l'esistenza di fusti tossici sotto la discarica. I casi di Fondi, Sabaudia, Ponza, Nettuno certificano che non si può più fingere che la criminalità organizzata non abbia messo le radici nel nostro territorio. Il grido di chi chiede giustizia per questo prete-profeta è arrivato fino alle orecchie sensibili dell'associazione Libera e del suo fondatore, don Luigi Ciotti, che il 29 luglio del 2009 si è appellato direttamente al Presidente della Repubblica. Secondo Libera la sua morte è tipico esempio di omicidio camorristico: le minacce, l’incaprettamento, le calunnie post mortem. Ma la lotta per uscire dal buco nero è ancora molto dura e difficile: ancora nel 2009 un quotidiano locale ricordava quest'omicidio senza il minimo accenno alla camorra. Fra tutte le associazioni locali, solo l'Azione Cattolica diocesana e l'Agesci si sono unite alla battaglia di Libera. Ma buona parte della società civile e della politica ancora tace. Ancora più assordante è il silenzio dei vertici della Curia pontina, come se anche alla Chiesa vada bene che un suo sacerdote sia ricordato come un presunto pedofilo piuttosto che come un martire della giustizia. Ma rompere questo silenzio è fondamentale: capire chi ha ucciso don Cesare Boschin potrebbe far scardinare il sistema di potere che domina l'Agro pontino. Ma sopratutto abbiamo il dovere di ricordarlo e far conoscere la sua figura perché a ottant'anni poteva tranquillamente girarsi dall'altra parte e fingere di non sapere, non vedere e non capire. A morire per i veleni della discarica sarebbero stati altri, non lui che alla vita aveva poco da chiedere ancora. E invece ha scelto di mettersi in gioco fino al sacrificio più estremo. 

Quest'articolo è stato pubblicato anche sul numero di ottobre 2011 di Collettivamente

giovedì 29 settembre 2011

Post a Rete unificata

Tutti i blogger d'Italia sono invitati a diffondere lo stesso post come segnale di protesta contro il comma 29, cosiddetto ammazza-blog. 


Il post che abbiamo scelto è di Bruno Saetta e spiega bene cosa non va in questa norma

Perché abbiamo scelto proprio questo post? Perché vogliamo sottolineare che la nostra non è 'indignazione automatica' ma una protesta informata. 


NO ALLA LEGGE BAVAGLIO!

venerdì 2 settembre 2011

Pietre coreane/8

Ottava parte

Per leggere la terza parte: http://strane-storie.blogspot.com/2011/08/pietre-coreane3.html
Per leggere la quinta parte: http://strane-storie.blogspot.com/2011/08/pietre-coreane5.html 
Per leggere la settima parte: http://strane-storie.blogspot.com/2011/09/pietre-coreane7.html

Chiusa la storia delle scritte e dopo aver mandato segretamente un regalo ad Alex per scusarmi, tornai a dedicare le mie energie alla punizione che avrei dovuto infliggere al Corea.
Jack Bicipite sembrava cambiato sul serio. Convinse suo padre a mandarlo a studiare fuori città, lontano dalla maschera che si era costruito. Nei mesi successivi diventò un ragazzo serio e riuscì a farsi nuovi amici. Imparò a sfogare le sue inquetudini attraverso la musica e diventò il batterista di una piccola band rock.

Dopo una settimana di tormenti decisi che era giunto il momento di passare all’azione. Avrei scavato senza pietà nell’inconscio del Corea e –ne ero certo– qualcosa sarebbe senz’altro saltato fuori.
Quella notte tornai così in quella villa col giardino profumato. Gli alberi ben curati erano immobili come l’aria notturna.
Mi fermai vicino ad un grande vaso. Giunsi le mani, le aprii e quando si formò lo schermo scrissi: “COREA”
Mi ritrovai sempre lì, vicino al vaso.
Perplesso iniziai a guardarmi intorno. Sentii un singhiozzio poco distante.
Mi spostai ancora, sempre muovendomi con estrema cautela.
Ero vicino alla piscina adesso. C’erano i resti di una festa finita da poco, gli invitati se n’erano andati ormai tutti. Era rimasto solo il padrone di casa, il Corea, seduto su una sedia a dondolo.
Eccolo il maledetto. Solo, senza nessuno, senza i lecchini, gli zerbini, la famiglia, la servitù. Solo con i suoi incubi, come ogni uomo.
Il viso era contratto e infelice, guardava malinconico l’acqua placida impastata di cloro.
Stringeva fra le mani un reggiseno rosa. Poi lo gettò a terra e si asciugò le lacrime con un fazzoletto.
Piangeva? Il Corea stava piangendo?
Probabilmente –insinuai malignamente– gli è andata male con quella ragazza. Mi domandai dove fosse sua moglie. Perché non stava lì a consolarlo?
Mi portai le dita alla tempia ed entrai.
Ci ritrovammo in un vasto deserto. All’orizzonte non c’era nulla, nemmeno il cielo. C’era solo lui, il potente Corea, solo nel deserto e basta.
Così tutto mi fu chiaro.
Uscii dal suo inconscio e tornai a guardarlo.
Aveva soldi, aveva il potere, aveva le donne, era temuto e rispettato ma era probabilmente l’uomo più solo di tutta la città.
Non aveva un amico.
Non aveva una famiglia. I figli e la moglie lo disprezzavano. Si limitavano ad usare di riflesso la sua forza.
Non aveva nessuno che gli volesse bene.
Provai pena per lui.
Compresi che non c’era bisogno del mio intervento. Lentamente scivolai fra le piante e tornai a casa.

Fu una decisione che non fu accettata dai miei amici. In particolare Chiara mi accusò di essere un buonista: “Ti sei arreso proprio nel momento in cui forse era più facile attaccare quel bastardo”
“E’ vero il Corea mi ha fatto compassione” –le risposi– “ma continuo a pensare che non debba guidare la città. Continuo a pensare, che in certi posti di responsabilità dovrebbe starci il meglio di una società, non gente corrotta anche nell’animo come lui. Ma non è compito di un Mostro come me mandarlo via. Spetta alla gente, alle persone condurre il destino della propria terra verso destinazioni diverse. Se tutti sono indifferenti ed egoisti, se il bene di tutti non interessa a nessuno, io posso anche costringere il Corea ad andarsene. Ma la gente egoista e indifferente manderà al posto suo un altro come lui e la storia si ripeterà. Io penso sia possibile combattere l’indifferenza e costruire un mondo migliore. Ma anche questo non è il compito di un Mostro. Io quella notte mi ero recato lì per punire il Corea e ho visto il vero volto di Silvano Borelli: un uomo solo e infelice. E non esiste una punizione peggiore di questa.” 

FINE

giovedì 1 settembre 2011

Pietre coreane/7


Settima parte
Per leggere la terza parte: http://strane-storie.blogspot.com/2011/08/pietre-coreane3.html
Per leggere la quinta parte: http://strane-storie.blogspot.com/2011/08/pietre-coreane5.html 

Entrai distrattamente nel Salone. Le Voci ulularono per salutarmi.
Sul muro pulito da poco c’era stato un nuovo tentativo di vandalismo.
“Ora basta!” sbottai.
Immaginai già la faccia di Alex ricoperta di scritte.
Le Voci ulurarono più forte.
“Non è il momento!” dissi loro.
Camminando a passo veloce tornai alla piazzetta dell’aggressione, quindi svoltai davanti casa di Alex.
Aspettai ben nascosto che tornasse da scuola. Alex mangiò senza voglia, guardò un po’ di televisione e si assopì sul divano.
Grande errore!
Si risvegliò in quella che era probabilmente la sua cameretta.
Sentì qualcosa prudergli la mano destra e iniziò a grattarsela nervosamente. Ma più si grattava più la mano prudeva e così doveva grattarsela sempre più velocemente. Grattava, grattava, grattava. Grattò così forte che la pelle si strappò all’altezza del polso. Alex cacciò un urlo ma non poteva smettere di grattarsi frenetico. La pelle si lacerò del tutto e la mano staccatosi dal braccio, cadde a terra con un tonfo. Il prurito era passato e il ragazzo si accasciò sul letto per riprendere fiato.
La mano, dopo un momento di esistazione, riprese vita e inizio a correre nella stanza. Poi si arrampicò sulla scrivania, prese un pennarello e inizio a scrivere dapertutto. Alex correva dietro alla mano supplicandola di smettere ma la mano era più veloce. Poi di colpo si girò e puntò alla sua faccia, riempendola di scritte. Tutti i pennarelli presero vita e iniziarono a scrivergli sulla faccia. Alex si dimenava e urlava, si dimenava e urlava ma non poteva sfuggire alla loro furia. Si svegliò piangendo. La mano era ancora al suo posto e i pennarelli non gli avevano deturpato il volto. Ma per calmarsi del tutto, dovette correre in camera e verificare che nulla era cambiato.
“Spero avrai imparato la lezione” bofonchiai, rientrando nel Salone. Dovevo riposarmi e pensare a come punire il Corea. Con lui non sarebbe stato, purtroppo, così facile.
Le Voci urlavano così forte che si udivano anche lì fuori. Che stava succedendo ora?
Aprii trafelato il cancello e il portone e mi guardai intorno. Dylan (Dylan!) aveva azzannato al polpaccio una strana creatura: aveva la pelle verdegnola, la faccia butterata, i vestiti lisi. E in mano una bomboletta spray.

Santa Luna! Alex non c’entrava niente!

Ma in fondo –ragionai– se io stesso avevo dovuto attendere fuori casa che tornasse da scuola, come poteva star in due posti contemporaneamente?
Mi sentii profondamente in colpa.
Ma il tempo per i rimorsi sarebbe venuto dopo. Ora bisognava capire chi fosse l’essere con la bomboletta spray e i propositi omicidi verso Jack Bicipite.
“Dylan puoi lasciarlo andare! Ottimo lavoro!” Dylan mi salutò contento e con la sua andatura goffa e incerta se ne tornò nei sotteranei. Le Voci gridavano impazzite e chiedevano il sangue della creatura.
L’esserino mi guardò con i suoi occhi torvi e sospettosi: “Brutto bastardo!” –sibilò– “non lo hai ancora ucciso! Bella giustizia la tua!”
“Credo sia buona educazione presentarsi. Io mi chiamo Urano ma credo tu mi conosca già.”
La creatura ignorò il mio saluto: “Voglio la sua testa. La testa di Jack Bicipite!” poi decise di allontarnarsi. Le Voci protestarono furiose.
Lo afferrai per il bavero e lo trascinai davanti a me: “Ti ripeto le regole della buona educazione…”
“Sei un autentico rompino!” –sbottò con la sua faccetta color muffa– “mi chiamo Icarius, un tempo invece ero Giacomo.”
“Scusa ma non capisco”
“Ma non vedi la mia pelle decomposta, i miei vestiti rovinati, i miei occhi, non senti la mia puzza…insomma io sono un cadavere!”
“Oh!”
“Sono morto in un incidente stradale molti anni fa. Non vedi i miei vestiti? Ti sembra che oggi sia sepolto ancora qualcuno con questi vestiti?”
“Non me ne intendo ma…”
“Bene. Io riposavo nella mia bara, quando Jack Bicipite e i suoi amichetti una sera profanarono la mia tomba.”
“Caspita!”
“Spaccarono la lapide, tirarono fuori la bara e poi tentarono di aprirla, riuscendo però solo a sfregiarla. Quindi la sfondarono con un’accetta, fecero uscire il mio corpo ma si spaventarono e mi lasciarono così mezzo dentro e mezzo fuori. Il guardiano arrivò solo alle nove del mattino e così rimasi esposto al sole per diverse ore. Quelle sufficienti per sdoppiarmi. Così la mia anima è rimasta nell’aldilà e il mio corpo nella bara, ma le mie ossessioni si sono materializzate in questo corpo e sono tornate a vagare nel mondo. E non guardarmi con quella faccia! Sai benissimo che tutto ciò è possibile, unendo ai raggi solari una certa combinazione di aria, vento e terra.
 D’altronde anche tu…”
“Cosa vai dicendo?” –sobbalzai– “Io non sono nato dai cadaveri. Io sono di alta qualità! Io sono dotato di anima!”
“Si si va bene. Ma è la mia storia quella importante o no? è la mia storia che devo raccontare o no?”
“Mi sembra che hai già detto tutto. Senti Jack è già stato punito ed ora si è pentito di tutte le sue colpe.”
“Voglio la sua testa!”
“Sai benissimo che per te non c’è scampo. Il suo sangue non ti darà la pace che cerchi, una volta ucciso Jack Bicipite un nuova ossessione tornerà a tormentarti.”
Era orribile essere un Ossessionato. Sono eterni prigioneri delle loro ansie e delle loro angosce. Non c’è speranza per loro perché tutte le cose belle della vita sono rimaste nella tomba o forse sono volate nell’aldilà. Per loro, solo la morte è l’unica liberazione.
Ma Icarius-Giacomo non la pensava così. Urlandomi che era un traditore venduto e vigliacco si allontanò rapidamente.

Continua...