Oggi è stata un’altra giornata di guerra in
Afghanistan. I talebani hanno assaltato la base di Camp Bastion, nella
provincia di Helmand. Niente di nuovo, verrebbe da aggiungere cinicamente. Sono
undici anni che, fra quelle pietre lontane, si combatte e si muore, in nome di
motivi che nessuno ricorda più.
Anche i media ormai ne parlano raramente. Ma l’attacco
di oggi è finito su tutti i giornali del pianeta. Basta leggere i titoli dei
vari articoli per capire il motivo: in quella base, si trovava militare fra i
militare, il capitano inglese Wales ovvero il principe Harry d’Inghilterra.
“Il principe sta bene” –ha voluto rassicurare il
mondo un comunicato dell’Isef, la coalizione degli eserciti presenti nel Paese–
“era nella base ma non è mai stato in reale pericolo.”
A morire sono stati altri. Due marines americani,
figli di nessuno, cui il comunicato dedica un accenno veloce. Non scrivono
neanche i loro nomi. E gli articoli di stampa che riportano l’attacco, dedicano
grande spazio alla presenza del principe. I due caduti sono usati solo
per enfatizzare il pericolo in cui si è trovato Harry.
Se nella base non ci fosse stato nessun nipote di
qualche regina, la loro morte sarebbe stata ignorata e dimenticata. Come
ignoriamo e dimentichiamo tutti quelli che continuano a morire nell'infinita guerra dell'Afghanistan:
un numero difficile da calcolare, (le stime dicono duemila occidentali, sessantamila
talebani e trentamila civili).
Ma il modo con cui hanno diffuso quella notizia è
nauseante. Si ci sono stati dei morti, è vero, ma state tranquilli, erano
poveracci figli di nessuno. Le celebrità, invece, stanno bene. E invece anche i figli di nessuno hanno diritto alla
loro dignità. Mi sarebbe piaciuto sapere i loro nomi, ma il grande mare di Google ha inghiottito ogni loro traccia.
E una volta scoperti i loro nomi, vedere i loro volti nelle
fredde foto-tessere e in quelle calde del loro profilo Facebook. Cercare le loro vite, i loro sogni, i loro amici, i loro amori, le loro passioni.
Scoprire se erano
partiti, convinti di servire la Patria, o più probabilmente, erano disgraziati come
il Piero della celebre canzone di De Andrè. Partiti perché costretti, non dalla
leva obbligatoria che non esiste più, ma dalle circostanze: la mancanza di un
lavoro, il bisogno di soldi per vivere e mantenere una famiglia. C'è persino chi parte per pagarsi gli studi, una volta sopravvissuti all'orrore.
Immaginare gli ultimi attimi della loro esistenza, pensare che sono partiti all'assalto con in testa la voglia di starsene altrove. Uccisi solo per un attimo di esitazione, di umana pietà, alla ricerca della forza di volontà sufficiente ad eliminare il "nemico". Immaginare a chi avranno dedicato gli ultimi pensieri, se avranno avuto il tempo di capire che era finita, mentre l'anima volava via.
Tutto questo non lo sapremo mai. Però i nomi, almeno
i loro nomi, almeno quelli potevamo saperli. Ma la sorte degli ultimi non importa agli uffici stampa dell'Isef né tantomeno a giornali, televisioni e siti Internet di tutto il mondo.