sabato 15 settembre 2012

Però il principe sta bene


Oggi è stata un’altra giornata di guerra in Afghanistan. I talebani hanno assaltato la base di Camp Bastion, nella provincia di Helmand. Niente di nuovo, verrebbe da aggiungere cinicamente. Sono undici anni che, fra quelle pietre lontane, si combatte e si muore, in nome di motivi che nessuno ricorda più.

Anche i media ormai ne parlano raramente. Ma l’attacco di oggi è finito su tutti i giornali del pianeta. Basta leggere i titoli dei vari articoli per capire il motivo: in quella base, si trovava militare fra i militare, il capitano inglese Wales ovvero il principe Harry d’Inghilterra.

“Il principe sta bene” –ha voluto rassicurare il mondo un comunicato dell’Isef, la coalizione degli eserciti presenti nel Paese– “era nella base ma non è mai stato in reale pericolo.”
A morire sono stati altri. Due marines americani, figli di nessuno, cui il comunicato dedica un accenno veloce. Non scrivono neanche i loro nomi. E gli articoli di stampa che riportano l’attacco, dedicano grande spazio alla presenza del principe. I due caduti sono usati solo per enfatizzare il pericolo in cui si è trovato Harry.

Se nella base non ci fosse stato nessun nipote di qualche regina, la loro morte sarebbe stata ignorata e dimenticata. Come ignoriamo e dimentichiamo tutti quelli che continuano a morire nell'infinita guerra dell'Afghanistan: un numero difficile da calcolare, (le stime dicono duemila occidentali, sessantamila talebani e trentamila civili).

Ma il modo con cui hanno diffuso quella notizia è nauseante. Si ci sono stati dei morti, è vero, ma state tranquilli, erano poveracci figli di nessuno. Le celebrità, invece, stanno bene. E invece anche i figli di nessuno hanno diritto alla loro dignità. Mi sarebbe piaciuto sapere i loro nomi, ma il grande mare di Google ha inghiottito ogni loro traccia.   

E una volta scoperti i loro nomi, vedere i loro volti nelle fredde foto-tessere e in quelle calde del loro profilo Facebook. Cercare le loro vite, i loro sogni, i loro amici, i loro amori, le loro passioni.

Scoprire se erano partiti, convinti di servire la Patria, o più probabilmente, erano disgraziati come il Piero della celebre canzone di De Andrè. Partiti perché costretti, non dalla leva obbligatoria che non esiste più, ma dalle circostanze: la mancanza di un lavoro, il bisogno di soldi per vivere e mantenere una famiglia. C'è persino chi parte per pagarsi gli studi, una volta sopravvissuti all'orrore.

Immaginare gli ultimi attimi della loro esistenza, pensare che sono partiti all'assalto con in testa la voglia di starsene altrove. Uccisi solo per un attimo di esitazione, di umana pietà, alla ricerca della forza di volontà sufficiente ad eliminare il "nemico". Immaginare a chi avranno dedicato gli ultimi pensieri, se avranno avuto il tempo di capire che era finita, mentre l'anima volava via.

Tutto questo non lo sapremo mai. Però i nomi, almeno i loro nomi, almeno quelli potevamo saperli. Ma la sorte degli ultimi non importa agli uffici stampa dell'Isef né tantomeno a giornali, televisioni e siti Internet di tutto il mondo. 

venerdì 14 settembre 2012

Funeral Party

Tempo fa andai ad un funerale di uno zio, morto precocemente.

Era un professore e i suoi studenti, nel ricordarlo, alla fine della Messa, raccontarono dall'ambone una serie di episodi divertenti che lo riguardavano.

Nonostante la tristezza del momento, la chiesa si riempì di risate.

I funerali dovrebbero essere sempre così. Uno schiaffo alla tristezza. Una risata o un sorriso, invece, può scaldare il nostro cuore in un momento già doloroso di suo.

Non sappiamo se l'Estremo Saluto è un addio o un arrivederci, ma sappiamo che altre lacrime non cancellano le lacrime.

Salutarci ricordando le cose belle fatte insieme piuttosto che rimpiangere quello che non si potrà più fare.

Far suonare le campane a festa piuttosto che a morto.

Fare minuti di casino piuttosto che minuti di silenzio.

Far vestire i preti con la veste bianca della luce piuttosto che con quella viola del peccato.

E ricordarsi che, quaggiù si sta come d'autunno sugli alberi le foglie e dedicarsi degli altri quando sono fra noi, vivi e sani, piuttosto che ululare disperati il giorno che non ci sono più.

martedì 4 settembre 2012

Fingersi morta su Facebook

Il sorriso di Alessia Calvani,
l'ultima vittima delle strade pontine
In questi giorni l'Agro pontino è in lacrime. A Latina Scalo, un pirata della strada ha investito e ucciso Alessia Calvani, quindici anni. L'assassino è fuggito senza prestare soccorso e la polizia, ora, lo sta cercando. 

Nelle ore della tragedia, qualcuno ha creato su Facebook, una pagina dedicata alla ragazza. Ormai è diventata una consuetudine, un po' ipocrita e un po' sincera: si apre qualcosa sui social network e per qualche giorno, chi vuole, va lì e sfoga il suo dolore, condivide i suoi ricordi, urla contro un Dio che permette tutto questo o si rassegna alla crudeltà della vita. Ogni epoca ha i suoi modi per piangere, la nostra -giusto o sbagliato- piange così.  

Quella pagina su Alessia Calvani, però, si è contraddistinta subito per una macabra caratteristica. L'amministratore (o l'amministratrice) ha finto di essere la povera ragazza ormai defunta che scriveva dal Paradiso e ha iniziato a postare decine di messaggi.

Saluti a parenti e amici, descrizioni dei momenti dell'incidente con le presunte sensazioni provate fra l'impatto con l'asfalto, il coma e la morte. Persino l'invito a partecipare al proprio funerale.

Naturalmente la pagina ha suscitato la reazione furibonda di molti utenti di Facebook che non hanno, giustamente, gradito tanto orrore. Chi gestisce la pagina, allora, ha iniziato a cancellare i post: spinto forse più che dal rimorso, dal timore che il social network californiano elimini tutto.

Chi c'è dietro? Un mitomane? Un pazzo? 

Probabilmente è solo un preadolescente che non si è neanche reso conto di quello che ha fatto. In molti, fra quella generazione, sarebbero disposti a tutto, pur di catturare un "like". Creano decine di pagine, inseguendo la moda o il caso del momento e poi spammano ogni angolo di Internet per farsi pubblicità. 

Esiste persino un mercato fittissimo: come fossero figurine, ci si scambiano, ad esempio, i cinquecento "mi piace" di una pagina X e si ottiene in cambio la nomina ad amministratore della pagina Y che magari ha toccato quota mille. Non mancano i furbi che rubano le pagine altrui, scatenando liti e psicodrammi. In genere l'età media di chi passa le giornate così ruota intorno ai tredici-quattordici anni, età in cui tutti siamo normalmente più idioti del normale.

Anche a tredici anni, però, si conoscono certi limiti morali, certe barriere invalicabili. Si capisce che esiste una vita reale, un dolore reale e quelle finte lacrime virtuali potrebbero facilmente ferirlo. Si capisce che con la morte non si può giocare. O almeno si dovrebbe capirlo.

Quanto è profondo il vuoto interiore di chi, pur di ricevere attenzione, si finge una ragazza deceduta? E' solo immaturità o solitudine? E i grandi dove sono? Sono solo capaci di segnalare la pagina, di fare i moralisti e di scuotere la testa sulle generazioni perdute? 

Si ringrazia Sara Suraci per la collaborazione.

domenica 2 settembre 2012

C'era un cinese in negozio

Negozi cinesi nel multietnico
quartiere di  Piazza Vittorio a Roma 
Dal cinese, qualche giorno fa. 

Con una mano destra reggo una maxi-confezione di dieci rotoli di carta igienica, sotto un'ascella ho incastrato uno scottex e con la sinistra tento di afferrare grosse buste nere della spazzatura sopra uno scaffale.

Notando le mie difficoltà, il commesso orientale si precipita dalla cassa: "Tengo io, plendi dopo" dice in un'italiano mozzicato.
Lo guardo confuso.
Il commesso insiste: "Tengo io, plendi dopo" e delicatamente prende la maxi-confenzione e lo scottex. Li porta alla cassa, me li conserverà fino a quando non ho terminato i miei giri dentro il negozio.

L'educazione è da sempre la migliore strategia economica. Perché con le mani libere avrei probabilmente potuto comprare più cose. E sopratutto perché gesti insperati fidelizzano il cliente e lo fanno tornare più volentieri. 

I negozianti italiani vedono sempre meno di buon'occhio l'agguerrita concorrenza straniera. Concorrenza che spesso calpesta le regole, sfrutta la manodopera, taglia prezzi e stipendi, dilata gli orari. Gli stranieri devono fare i conti anche con pregiudizi e leggende metropolitane dure a morire (quanti credono che davvero nei camerini degli abbigliamenti cinesi si nascondino mafiosi pronti a rapire le donne che si cambiano?). 

Ma se conquistano euro e clienti, non è tanto per l'illegalità ma piuttosto per la gentilezza che hanno sempre, come quel commesso nei miei confronti. Gentilezza quasi scomparsa invece da buona parte dei colleghi italiani. 

Fuori dai negozi, le cose sono anche peggio. Nessuno ringrazia, nessuno si scusa, nessuno sbaglia. Tutti capaci solo a pretendere, a battere i pugni, ad avere sempre ragione. Stiamo sempre alla ricerca di un pretesto per litigare, di uno spunto per criticare, di un motivo per togliere il saluto a qualcuno.

Meglio andare dal cinese...